Marco Mirra (a), Cristina Aguzzoli (b)
(a) Centro Nazionale Salute Globale, Istituto Superiore di Sanità, Roma
(b) Azienda Regionale di Coordinamento per la Salute, Udine
Introduzione
Sono ormai passati più di 50 anni da quando fu realizzata la prima tratta di rete Internet
utilizzata per collegare tra loro alcune università americane (1969) derivata dalle ricerche in ambito militare statunitense. La modalità di comunicazione ebbe una tale evoluzione finchè nel 1991, Tim Berners Lee, ricercatore inglese del Conseil Européen Pour la Recherche Nucléaire (CERN) di Ginevra, creò il primo sito web (World Wide Web) guadagnandosi cosi l’appellativo di “padre” del web. Anche se parliamo di un lasso temporale relativamente piccolo, va notata la grande trasformazione avvenuta: mentre nel periodo 1969-1990 la rete era utilizzata per scopi militari o scientifici riservati a pochi addetti ai lavori, dalla nascita del web (1991) la fruizione delle informazioni diventa accessibile a tutti. Quindi possiamo ben distinguere un “prima” e un “dopo” Internet, fino ad arrivare ai giorni nostri che in molti definiscono di “benessere digitale”. Benessere dovuto alla miniaturizzazione dell’hardware (smartphone, tablet, ecc.) e al potenziamento della rete di comunicazione, reso possibile grazie all’aumento della copertura di trasmissione dati. Di fatto siamo in piena iperconnessione. In questa nuova fase, le comunicazioni sottostanno alle regole dei tempi e modalità tipiche del digitale, totalmente diverse da quelle biologiche. Una continua erogazione di informazioni che facilmente ci mette nelle condizioni di un rapporto molto più ansiogeno, sopraffatti dal bisogno di essere sempre online. Il fatto che sia possibile avere immediatamente a disposizione un accesso comunicativo cosi facilitato e capillare ha impattato notevolmente sulla gestione e dominio del nostro tempo nel quale lo spazio vitale, all’interno del nostro normale ciclo circadiano, viene praticamente sostituito con uno spazio dedicato al digitale. Siamo inevitabilmente dentro a una serie di processi tipici dell’approccio multitasking. Questo termine che in italiano vuol dire processo multiplo, in ambito informatico sta a significare la capacità di un software di eseguire contemporaneamente più programmi. La comunità scientifica ancora oggi è aperta a interpretazioni diverse sulla capacità del cervello umano a processare più informazioni in parallelo. Uno studio interessante per verificare l’effettiva capacità del cervello a svolgere più attività in parallelo è quello che è stato condotto su pazienti con morbo di Parkinson in un gruppo misto di soggetti anziani, per valutare il deterioramento delle funzioni cognitive causato dalla malattia. Il gruppo in questione era formato da un gruppo clinico e uno di controllo, composto da persone senza malattia, ai quali è stato richiesto di svolgere alcune attività cognitive (più o meno complesse) mentre pedalavano sulla cyclette. È stato dimostrato che durante l’esecuzione dei vari compiti, la loro velocità di pedalata subiva addirittura accelerazione, potendo così ipotizzare una sorta di stimolo alla neurogenesi (Altmann, 2015). In altri studi invece è stato possibile dimostrare il nesso tra multitasking e mutazioni nella struttura del cervello in maniera negativa. Si è scoperto che i soggetti che facevano un utilizzo frequente del multitasking attraverso l’uso dei media, presentavano minore densità di materia grigia
nell’area cerebrale coinvolta nel pensiero e nel controllo emotivo, rispetto a coloro che invece utilizzavano un solo dispositivo per volta. Le conclusioni della ricerca hanno evidenziato una ridotta capacità di attenzione, con conseguenze ancora più gravi legate al rischio di depressione e ansia (Ophir, 2009).
Stato dell’arte
La diffusione dei dispositivi mobili (smartphone, tablet), l’impiego dei social network e dei servizi di messaggistica evoluti, ci permette di “abitare” in un mondo digitale parallelo rendendoci inconsapevolmente anche attori (il più delle volte passivi), con ruoli a volte molto diversi dalla realtà. A livello inconscio, anche se nella gran parte dei casi si tratta di una idealizzazione virtuale, ci si predispone a un atteggiamento inter-relazionale tipico dei meccanismi sociali tradizionali. Una specie di sfinge, nella quale coesiste sia una natura fisiologica che una digitale, i cui risvolti sociali e di benessere non sono valutabili subito, ma nel tempo. Anche se gli elementi oggi a nostra disposizione ci danno alcuni orientamenti di tipo comportamentale su come si svilupperanno le interazioni uomo-digitale, in maniera inconsapevole, esattamente come accade con gli animali da addestrare, siamo sottoposti a una serie di condizionamenti che includono l’attesa di una forma di ricompensa. Nella Tabella 1 vengono messe a confronto le vari fasi di un sistema classico di comando-azione-ricompensa utilizzato per addestrare gli animali e il nostro modo di mettere in atto le stesse fasi attraverso l’uso di uno smartphone.
Come si evince dalla Tabella 1, il sistema di ricompensa per l’animale è dovuto al fatto di aver eseguito un’azione (il comando dell’addestratore) di cui probabilmente non ha consapevolezza, ma che di sicuro è collegato a una ricompensa. Quindi poco importa all’animale cosa debba specificatamente fare, perché il suo cervello ha collegato la ricompensa direttamente al comando. Diversamente ecco cosa succede per il comportamento umano: al richiamo (il bip o la suoneria) già attiviamo un sistema di controllo/verifica (vedo chi mi cerca e quale contenuto mi è arrivato da leggere), e solo dopo scatta la ricompensa “eventualmente”. Ma siamo così sicuri di avere questo controllo? Se andiamo meglio ad analizzare le fasi del nostro comportamento (es. quando ci arriva una notifica), dobbiamo prendere atto che, in modo automatico, inseriamo una sorta di pausa obbligata in quello che in quel momento stavamo facendo, una particolare interferenza a un’attività (qualsiasi essa sia), a seguito della quale si sott’intendeva una ricompensa (valeva la pena verificare chi fosse). È facile in questo senso applicare la seconda legge di Newton che in sintesi ci ricorda: quando un corpo esercita un’azione su un altro corpo, ciò comporta una reazione. Ma se sostituiamo ai 2 corpi noi, come essere viventi e lo smartphone le cose si complicano. Infatti, partendo dal presupposto che indipendentemente da chi esercita l’azione, ci sarà comunque una reazione, i ruoli (azioni) che possiamo assumere tra noi e lo smartphone non sono prestabiliti. Posso agire inviando un messaggio o posso reagire rispondendo a uno che mi è stato inviato. Inoltre si instaura una sorta di allarme continuato: c’è bisogno di me per un’emergenza? Se non rispondo subito mi perdo qualcosa o dimentico qualcosa? Se accade durante l’attività lavorativa si configura come frammentazione cronica del lavoro, una delle cause di distrazione e stress cronico più frequenti. Per questo possono venirsi a creare dei veri e propri cortocircuiti comportamentali che inesorabilmente vanno a impattare in maniera consistente sulla
gestione della nostra qualità della vita.
Possiamo a ragione asserire che il “benessere digitale è tale soltanto se possiamo avere la facoltà di gestire i tempi”. Questa gestione però comporta il fatto di essere padroni di passare dalla fase di richiamo/comando a quella di ricompensa in un lasso di tempo diluito, senza sovrapposizioni, forzandosi di interrompere l’azione ripetitiva senza coazione a ripetere. Minore è il tempo che intercorre tra i vari step, maggiore è la probabilità di aver innescato uno stato di stress (Tabella 1), una sorta di overlapping tra chi decide e chi esegue, situazione che va a predisporre una serie di precursori di carico allostatico. Oltre a non concludere ciò che stiamo facendo, perché perdiamo continuamente la concentrazione, “distratti” a rispondere ai messaggi sul telefono non ascoltiamo i messaggi che il nostro corpo ci invia e perdiamo il contatto con noi stessi.
Impiego delle nuove tecnologie digitali come ausilio all’interocezione
L’interocezione è la capacità di percepire le informazioni come il respiro, la peristalsi
gastrointestinale, il dolore di fondo e tutto ciò che interagisce con il nostro corpo. Si tratta di informazioni automatiche che il nostro filtro globale (connettoma) silenzia, finché non ci sono alterazioni disfunzionali che devono richiamare la nostra attenzione. A parte le capacità individuali caratteriali o condizionate da aspetti come la meditazione e particolari pratiche specifiche di rilassamento (es. mindfulness), la soglia di ascolto di noi diminuisce sempre di più se il nostro cervello è impegnato in altro. Il non dominio di questo aspetto lascia spazio a una serie di atteggiamenti compulsivi (la continua interrogazione del nostro smartphone) che, come già più volte ripetuto, interferiscono con il nostro tempo biologico. Una forma di incapacità nel capire quando fermarci e per quanto, ci rende vulnerabili a farci consumare tutta una serie di piccole porzioni di tempo che in qualche modo irrigidiscono la nostra capacità di adattamento. Come ormai è dato per assunto, esiste una profonda correlazione tra mente e corpo psicosomatica, dal greco psiche: animo; soma: corpo) e come gli stati emotivi possano influire sul corpo, facendolo ammalare. Ma la buona notizia è che quello che fino a ieri era una percezione (opinabile e individuale) dello stress, oggi è possibile utilizzare parametri rapidi e non invasivi per avere una visione scientifica dell’impatto che lo stress ha sul nostro sistema nervoso autonomo. Questo è possibile grazie a un parametro, l’Heart Rate Variability (HRV) che analizza la variazione della frequenza cardiaca (Chen, 2020). Nel pensare comune si è sempre portati a credere che una condizione di salute ottimale sia collegata a una frequenza cardiaca regolare. In realtà gli studi sulla variabilità della frequenza cardiaca dicono proprio l’opposto. Maggiore è il dato che misura la variabilità della frequenza cardiaca, maggiore è la capacità del nostro organismo di adattarsi agli stimoli e sollecitazioni a cui è sottoposto. Vale a dire che la variabilità della frequenza cardiaca è un indicatore di resilienza complessiva del sistema
nervoso, che descrive la capacità di adattamento nel momento che stiamo vivendo. I parametri che descrivono l’HRV nelle sue sotto-componenti ci danno preziose informazioni indirette sull’equilibrio fra il sistema nervoso simpatico (che mette in circolo energie e procura lo stato di allerta tipico dello stress acuto) e il sistema parasimpatico che predispone alla fase di riposo e recupero (Shaffer, 2017; Laborde, 2017). È proprio a causa dell’alterazione di questo equilibrio che iniziano i problemi. Quando cioè il nostro cervello percepisce un pericolo, anche immaginario e ci si predispone all’azione, ma l’azione non si può realizzare e la percezione rimane attivata nel pericolo, l’attivazione del sistema nervoso diventa persistente nella sua prevalenza di tipo simpatico, quindi con alto consumo di energia e mancanza della fase di recupero delle energie. È attraverso la rilevazione della frequenza cardiaca e delle sue impercettibili pause e accelerazioni che è possibile ricevere tutte le informazioni necessarie per conoscere il nostro stato di resilienza e di capacità di affrontare lo stress efficacemente. La respirazione d’altra parte incide in modo molto significativo su questi valori e può essere oggetto di training per riequilibrare la situazione. Tutto questo grazie all’impiego di sensori che rilevano la vasodilatazione periferica dei capillari sanguigni e inviano un segnale a un software che li classifica sotto forma di un parametro chiamato Root Mean Square of Successive Differences (RMSSD), che genera un valore compreso tra 0 e 100. Un valore basso di RMSSD è indice di scarso adattamento, che può essere determinato da uno stressor acuto (come una lesione fisica) ma anche da uno stressor cronico come il rimuginio mentale che perdura. In questo contesto si richiama l’attenzione a tali parametri per dimostrare che essere continuamente distratti dall’ambiente esterno, essere privi di filtro rispetto alle informazioni che arrivano alla nostra elaborazione emotiva con una esposizione esagerata a sollecitazioni emotivamente pesanti (morte, incidenti, catastrofi, delinquenza, crisi) mette a dura prova l’equilibrio percettivo, senza concedere le necessarie pause di recupero, con uno sbilanciamento che può generare patologia.
Conclusioni
È fuori dubbio che dovremmo sempre tutelare e rispettare la nostra salute mentale, attraverso la consapevolezza di ciò che accade dentro e fuori di noi. Un processo questo che nella maggior parte delle persone non è stato mai avviato o che per svariati motivi viene messo da parte e a volte dimenticato. L’elemento di monitoraggio principale, come abbiamo visto, è il tempo, accompagnato dalla capacità di stabilire cause ed effetti. La tecnologia digitale ha un grande potenziale e allo stesso tempo rappresenta un grande pericolo. La differenza la fa l’utilizzatore e la sua consapevolezza. La pandemia da SARS-CoV-2 ci ha spinto in un modo obbligato ad accelerare i consulti a distanza con la Telemedicina, le conferenze online, le riunioni virtuali, obbligandoci a relazioni bidimensionali con effetti a volte salvavita. Ciò non compensa la relazione reale, indispensabile per gli esseri umani, ma per brevi periodi dona relazioni altrimenti impossibili. Il fattore chiave è non credere che siano elementi sostitutivi del rapporto reale. Ecco che si ripropone il ciclo dell’alternarsi delle cose, affinché non si instauri una via senza ritorno, ma sia sempre l’equilibrio a governare l’evoluzione del progresso.
Bibliografia
Altmann LJ, Stegemöller E, Hazamy AA, Wilson JP, Okun MS, McFarland NR, Wagle Shukla A, Hass CJ. Unexpected dual task benefits on cycling in Parkinson disease and healthy adults: a neurobehavioral model. PLoS One 2015;10(5):e0125470.
Chen Y, Zhang L, Zhang B, Chan CA. Short-term HRV in young adults for momentary assessment of acute mental stress. Biomed Signal Process Control 2020;57:101746.
Laborde S, Mosley E, Thayer JF. Heart rate variability and cardiac vagal tone in psychophysiological research – Recommendations for experiment planning, data analysis, and data reporting. Front Psychol 2017;8:213.
Ophir E, Nass C, Wagner AD. Cognitive control in media multitaskers. Proc Natl Acad Sci USA 2009;106(37):15583-7.
Shaffer F, Ginsberg JP. An overview of heart rate variability metrics and norms. Front Public Health 2017;5:258.
FONTE: Rapporti ISTISAN